A trent’anni dalla strage di Capaci zone lasciate in ombra stridono con la commozione e le commemorazioni di rito, trent’anni dopo si cercano ancora verità sugli attentati contro Falcone e Borsellino non ancora venute a galla. Dobbiamo ancora chiedere spiegazioni ad uno Stato che negli anni ha mostrato debolezze e incertezze nella lotta alla mafia? A cosa sono utili passerelle politiche nei luoghi delle stragi quando una corruzione dilagante infesta ancora la nostra regione e tutto il Paese? Ancora oggi risuona la voce di un uomo che ha dedicato la sua vita al raggiungimento di uno scopo: migliorare la propria terra, non piegarsi ad un sistema marcio dall’interno, ma camminare con la schiena dritta e il sorriso sul volto. È la voce di Giovanni Falcone, magistrato antimafia che con il suo esempio ha dimostrato che “la mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo”. Sono passati trent’anni da quel 23 maggio 1992 in cui persero la vita insieme al giudice Falcone la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Mettere a tacere una voce con 500 chilogrammi di tritolo: era questo l’obiettivo di coloro i quali vedevano un ostacolo nelle azioni scomode del magistrato, sin dalla costruzione del pool antimafia palermitano che istituì il celebre maxiprocesso dando una scossa alle coscienze siciliane e non soltanto. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, altro pilastro della lotta alla mafia vittima della strage di via D’Amelio che sarebbe avvenuta poco dopo (il 19 luglio 1992), sono stati e sono tutt’ora personaggi che talvolta erroneamente si suole definire “eroi”, ma che sono fondamentali per invitarci alla riflessione: a che punto siamo con la lotta alla mafia? Siamo forse macchiati da un sistema fatto di indifferenza, violenza e criminalità? Cosa rimane dopo tre decenni di ricordo e commemorazioni? Il ricordo fine a se stesso porta a chiedersi se siamo veramente consapevoli di un’illegalità diffusa e mai davvero combattuta, se siamo in grado di conoscere l’atteggiamento omertoso insito nei nostri comportamenti. A cosa serve allora il sacrificio di uomini e donne onesti? All’emergere di domande come queste è difficile riuscire ad accontentarsi di sterili commemorazioni. Legalità è lontananza dalla corruzione, è la non accettazione dell’incapacità di chi occupa poltrone e non si preoccupa di impegnarsi con azioni concrete per il bene della propria terra. È forse necessario fare un passo indietro, riflettere prima sul senso di giustizia e soltanto dopo commemorare. Questa giornata ci mette in guardia: se pensiamo che la lotta alla mafia sia “una questione di eroi”, se pensiamo che basti versare una lacrima nel ricordo di momenti bui per il nostro Paese, rischiamo di vanificare lo sforzo compiuto da individui che hanno dato la loro vita per farci comprendere come la linea tra bene e male sia ben più sottile di quello che si pensi. Ricordare per comprendere che non esiste bianco o nero, ma che nella nostra società vi sono intere strade grigie che, se accolte come percorribili, alimentano un sistema di corruzione e deterioramento di quanto di buono si costruisce con fatica. La mafia di oggi si insinua tra bene e male, tra politica economia e società, riconoscerla è più che mai necessario per combatterla sempre, non soltanto un giorno su 365. (foto dell'opera realizzata all'ingresso del Tribunale di Catania dagli stdenti dell'Istituto Emilo Greco)