Bombardati da notizie incessanti ci siamo ritrovati e ritrovate in questi giorni a leggere ossessivamente i dettagli, sempre più controversi, del caso di Giulia Cecchettin la ragazza ventenne uccisa dal suo ex fidanzato. Un polverone mediatico ci ha avvolto e, come sempre, nel creare tanta nebbia ha diviso, stremato e confuso molti dei lettori e delle lettrici. «Era un bravo ragazzo» dicono, mentre narrano degli atti osceni commessi da Filippo Turetta sul corpo della ragazza. Una contraddizione a cui non possiamo essere indifferenti. Cosa ha di diverso il caso di Giulia Cecchettin dalle altre 108 donne uccise solo questo anno? Perché nelle maggiori piazze italiane tra cui Catania ieri sera, sono scese a protestare migliaia di donne con il movimento argentino Non Una Di Meno?
Una narrazione che cambia
Per la prima volta la narrazione è stata diversa: non un malato, non uomo violento spinto da un “raptus”, non uno stalker né un pervertito ma un bravo ragazzo di vent’anni si è questa volta macchiato di femminicidio. I conti allora sembrano non tornare, contro ogni narrazione storica che ha personalizzato i casi di femminicidio relegandoli agli istinti del singolo, questa volta emerge la causa primordiale: una cultura patriarcale di fondo che, in una società dove lo squilibrio di potere tra i sessi è ancora presente, causa una violenza di genere sistemica e non personalizzata che sfocia poi in un atto estremo: la morte.
A cambiare le carte in tavola e stravolgere la narrazione classica dei femminicidi è stata inoltre la testimonianza della sorella di Giulia, Elena Cecchettin che in un’intervista rilasciata dopo poche ore il ritrovamento del corpo della sorella, ha ribadito la necessità di lottare per rivendicare il ruolo delle donne all’interno della nostra società, riconoscere una violenza sistemica ed agire per distruggere una cultura patriarcale di cui subiamo ancora i retaggi. « Distruggete tutto» dice Elena animando così i cuori arrabbiati delle donne. Una rabbia, non violenta che, solo attraverso la sorellanza riesce a trasformarsi in forza per reagire.
L’Hashtag Not All Men
Un altro ultimo elemento da analizzare prima di arrivare al corteo di ieri sera a Catania è l’hashtag che circola da giorni sui social «Not all men». Una rivendicazione di protagonismo maschile a cui le donne non vogliono più essere indifferenti. Molti uomini infatti in seguito alla notizia del femminicidio di Giulia Cecchetin hanno rivendicato la loro posizione non riconoscendo l’accaduto come atto sistemico ma relegandolo a un caso eccezionale. Evidentemente però di casi eccezionali ce ne sono stati 108 in un solo anno e questa è una riflessione da tenere in considerazione. «Numeri da guerra» affermano i e le manifestanti scese in piazza ieri sera a Catania. «Non sentirsi parte del problema - spiegano le attiviste del collettivo catanese Spine Nel Fianco- porta gli uomini a divenire complici di una cultura che ci vuole zitte o morte».
A tutti quegli uomini che si identificano allora nell’hashtag diffuso sui social, a tutti gli uomini che non si riconoscono nella violenza di genere si chiede allora di prendere posizione: aprire gli occhi e osservare la società in cui viviamo. Prendere atto della propria posizione di privilegio rispetto a quella delle donne e troncare sul nascere ogni tipo di reazione violenta o discorso sessista. «Imparare un linguaggio inclusivo privo di odio e di offese sessiste è un primo passo per la parità».
Protagoniste solo le donne
«Questa oggi è la nostra lotta-intimano le attiviste del collettivo catanese trans-femminista all’inizio della passeggiata rumorosa in via etnea- chiediamo agli uomini di lasciare la testa del corteo». In strada centinaia di ragazze, bambine e adulte. Generazioni femminili mischiate insieme in un unico coro che gridava rabbia. Una potenza femminile forte che ieri sera si è unito istinto di sorellanza che spesso è l’unica arma di difesa contro la violenza ed il possesso maschile. Mazzi di chiavi agitati in aria, pentole battute con i mestoli, tamburi, fischietti, piedi scalpitati. Un rumore forte che veniva dal profondo del cuore per rispondere all’appello di Elena Cecchettin. «Non basta il lutto, non faremo un minuto d silenzio nelle scuole perché il silenzio è complice. Faremo rumore perché solo continuando a reagire potremmo vivere». Una provocazione forte diretta al ministro Valditara che questa settimana ha proposto un minuto di silenzio nelle scuole per la morte di Giulia.
Perché il corteo si è fermato davanti alla questura ?
«La polizia non è intervenuta dopo la segnalazione fatta da un vicino di casa di Giulia Checchettin la sera dell’omicidio. Si poteva salvare». Dopo questo ulteriore dettaglio, tra le strade, prende forma l’urlo di protesta: «Mi difendono le mie sorelle e non la polizia». Il corteo, dopo aver percorso la via Etnea di Catania, non facendo caso alla pioggia che si mescolava tra le urla, si è fermato davanti la questura di via Manzoni. La scelta, non casuale nasconde un significato specifico: sottolineare l’inefficacia dell’azione delle forze dell’ordine per i casi di femminicidio, le denunce di molestie e stalking spesso sminuite e dunque normalizzate, le ingiustizie subite in tribunale da parte di donne stuprate e non credute. « Questo come quello di tutte le altre donne è un omicidio di stato» urla il corteo davanti alla questura. In quel momento non c’è spazio per nessuna obbiezione: le donne, davanti a uno stato assente, restano da sole. «Nel momento in cui la stessa magistratura colpevolizza le donne che subiscono violenze, questa diventa di fatto complice e parte del problema».
E la movida? Che colpe ha?
Il corteo si è mosso poi verso l’ostello e piazza Federico secondo di Svevia due luoghi centrali per la movida catanese di molti giovani. Nel ricordo della ragazza stuprata a Palermo proprio alla “Vucciria” luogo di ritrovo storico per i Palermitani; le manifestanti hanno scelto di fermarsi nei luoghi simboli della movida catanese. Perché? «Spesso è proprio in questi luoghi in cui consumano le violenze. Rendere consapevoli i frequentatori dei locali ed anche i loro proprietari è fondamentale per creare luoghi di ritrovo sicuri». L’invito è ancora una volta quello di essere parte attiva della propria società: riconoscere il problema e saperlo identificare anche durante una serata tra amici e amiche.
Cosa è cambiato quindi per il caso Cecchetin?
Si chiede di prendere posizione per la prima volta, non solo alle donne nel riconoscere le violenza e il potere del proprio no ma anche verso gli uomini che imparino a riconoscere, battute comportamenti sessisti e violenti tra i loro coetanei. Il monito è quello di imparare a vivere in una società civile dove si sceglie di convivere con uomini e donne. Rispettarsi e sentirsi chiamati in causa davanti a un problema di violenza di genere sistematica.